Bea e Filippo

Bea e Filippo

giovedì 24 ottobre 2013

Ascolto del dissenso ... ha senso?

Sono in trip da riflessioni. Capita. La mente ogni tanto va per conto suo. La lascio andare perché possa mettere in fila sollecitazioni, stimoli, pensieri. Che poi ne produca di intelligenti è tutto da verificare. Ma se non ci prova.
In più voglio tirare l'acqua al mio mulino perchè so di essere uno "scassapalle" impenitente.
Ma tant'è che lo faccio.

Qualche giorno fa leggendo l’intervista ad Angela Ahrendts (appena passata da Ceo di Burberry ad Apple come responsabile degli  Store) rimasi colpito da una sua affermazione … che cito a memoria: “Nella guida delle aziende un aspetto fondamentale che deve caratterizzare un manager è l’ascolto del dissenso: quello dei clienti e quello dei dipendenti. Dipendenti sempre allineati e in silenzio non offrono quasi mai un valore aggiunto”.
Da una ricerca del Great Place to work emerge non solo che Google è il luogo di lavoro migliore al mondo, ma che in generale le società dove si lavora meglio sono quelle che da una parte non hanno paura di “essere sottoposte al giudizio dei lavoratori”, e che cercano di  portare avanti una politica generale che aiuti il dipendente ad essere più felice (se lo è di solito raggiunge un tasso di produttività del 30% in più della media).

Queste notizie mi provocano sempre una certa insofferenza. Perché non sono semplice cronaca: esprimono una politica, una visione strategica,  che tenta di unire azienda – lavoro – benessere della persona. Tre fattori inscindibili per costruire il futuro, almeno un futuro dignitoso.

Non conosco benissimo il mondo del lavoro delle grandi aziende in Italia, conosco un po’ quello delle piccole. Ma da italiano, orgogliosamente medio, registro alcune sensazioni.
Da noi il dissenso è vissuto come un fastidio, una scocciatura. In generale, che si tratti di azienda, di struttura sociale (lo Stato, la Chiesa o le varie agenzie educative, anche la famiglia in certi casi), avere a che fare con persone che cercano di esprimere un giudizio di critica, che evidenziano storture (magari anche solo percepite  ….) e che quindi esprimo un dissenso, è ritenuto un ostacolo, un problema.
Mai lo si coglie come una risorsa o una possibilità.
Secondo me la dinamica presente è lineare (quasi banale): la guida o  il sapere ha sempre una dinamica verticale. Chi sta sopra ha l’autorità (i più evoluti la definiscono responsabilità, quasi per farne percepire il peso in senso fisico…) che emana direttive e vie da seguire: il “resto” si deve adeguare. “Il capo sono io, sono io che comando, è mia responsabilità …” quante volte affermazioni di questo tipo riecheggiano nei luoghi di gestione.
Guardiamo alla  politica: c’è un ruolo cristallizzato. Quando un politico raggiunge certe posizioni dimentica la sua dimensione di cittadino e assume il ruolo di “benefattore” particolare: non ascolta od osserva i bisogni, né cerca di spendersi per un bene generale (di solito, per carità). Afferma la sua autorità elargendo favori. Le critiche eventuali vengono relegate nel “vediamo che si può fare”.

Ammetto che anche come papà questo rischio lo corro alla grande. Proprio perché investito, in automatico, del ruolo di padre mi sento depositario di un sacco di cose da dare, dire o spiegare…. Risulto meno incline ad ascoltare o percepire disagi, dissensi o pensieri contro. (ma su questo ci tornerò)

Perché tutto questo? Non sono un sociologo e quindi dalla mia mente non escono di certo  né soluzioni né analisi incontrovertibili.
Ma sono convinto che:
  •  Imporre è molto più semplice che lasciarsi mettere in discussione
  •  Argomentare implica  la fatica di riattivare un ragionamento (processo eluso per motivi o di tempo o di opportunità … paura dell’esito)
  •  Riconoscere errori viene percepito come diminuzione di sé
  •  Imparare ad accogliere idee, suggerimenti, non fa rima con “riconoscimento della propria autorità”
  •  “Buona risorsa” = lavoratore diligente e collaborativo. “cattiva risorsa = lavoratore critico e incline a dire come la pensa.
  •  Si tollera di più il “fannullone silenzioso” del “critico che produce”
Queste ed altre dinamiche, a mio avviso, stanno affossando un sistema. Incrostato dalla presunzione di generazioni che si ritengono depositarie di una verità (gestionale, intellettuale, sociale) che invece è svanita pure dentro di loro. E a loro insaputa.
La storia non si ferma e questo pian piano verrà smascherato e sostituito, ma se si avesse il coraggio di anticiparlo con scelte coraggiose (neppure più di tanto) o almeno di buon senso, cominceremmo a recuperare un po’ di terreno…

E di felicità!

4 commenti:

  1. Superpapà for president! Io ti voto, giuro!
    Sottoscrivo tutto e riassumo con "Si tollera di più il “fannullone silenzioso” del “critico che produce”". Resto convinta che quando sono uscita col treno esuberi, qualcuno ha fatto una festa!
    Per il quieto vivere, la maggior parte delle persone sta affossando il nostro paese, ma è sempre colpa degli altri (soprattutto in politica e non si può negare). Ma dove eravamo noi nel frattempo?

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  2. Sono davvero felice di leggere questo post, hai espresso perfettamente il mio pensiero di questo periodo. È tutto così nelle nostre aziende, a parte le poche illuminate, la flessibilità che si richiede è solo quella di accettare qualsiasi decisione seppure irragionevole. E chi dice sì viene visto molto meglio anche se incapace. Sono piuttosto arrabbiata con la mia azienda e sto esternando parecchio, magari non servirà a nulla ma è finito il tempo della cieca accettazione, così si muore e sentire che anche grossi manager lo pensano mi rincuora. Grazie!

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