Bea e Filippo

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giovedì 19 aprile 2012

Dare un nome alle inquietudini

Questa sera un mia  cara amica   mi ha mandato questo sms: "dobbiamo educare i nostri bimbi a parlare, a parlarsi e a parlarci delle cose del cuore.... questa sera penso che a me manca molto questa cosa: il non esserci educati, io e i miei genitori a poter dire e dare un nome alle inquietudini ...". Le ho risposto semplicemente: "hai ragione!".
Se ripenso al rapporto con i miei genitori non posso che sottoscrivere questa diagnosi: anche nella mia famiglia non ci si è educati a parlarsi per dare un nome alle inquietudini. Non è che si tacessero i problemi o che non ci fosse dialogo, ma il tirar fuori e dare un nome, almeno provare a farlo, a quello che succedeva dentro i nostri cuori, questo no, non succedeva. Non so perchè, ma non sono cresciuto con questo desiderio. E tanto di ciò che avveniva dentro di me o veniva tenuto dentro, o veniva semplicemente rivelato altrove, spesso da chi  non sapeva neppure capirne bene il senso e la portata.
Ma tornare al passato ora non mi interessa, preferisco prendere la prospettiva più costruttiva del messaggio, che mi spinge a guardare al presente e al futuro,  e a chi  mi è affidato: i miei figli. "Educarli a parlare, parlarsi e parlarci delle cose del cuore": questa è la sfida. Ma ancor di più "saper dare un nome alle inqieutudini". E riconoscere che queste conquiste non sono solo un dettaglio nel loro cammino di crescita, ma un fattore che potrebbe determinare una migliore qualità e una maggiore serenità della loro vita. Parlare delle cose del cuore significa aiutare i miei figli a sentirsi liberi, non giudicati, accolti nel momento in cui desiderano confidare qualcosa che hanno dentro e che non sanno bene come dirlo,  non sono certi se sia bene o male, o se a noi possa far far piacere o meno. Significa farli sentire al sicuro nel momento in cui decidono di rivelare qualcosa che li turba e li rende inquieti. Dare un nome alle inquietudini va addirittura oltre: significa aiutarli a riconoscere, perchè identificato, ciò che genera un malessere interiore; e dare un nome permette di chiarirne l'identità con il vantaggio di poterne affrontare le cause. E, si spera, risolverle.
Il messaggio di questa mia  amica mi ha costretto a riconosce che già oggi ad esempio mia figlia, che ha solo quattro anni, fa una grossa fatica, in certi casi, a confidare qualche delusione che le è successa con le amiche o a condividere ciò che ha provocato in lei qualche sentimento spiacevole (magari di poco conto in sè, ma per lei importante). Ci accorgiamo, io e mia moglie, che qualcosa non va, ma a volte non riusciamo a trovare la chiave per fare in modo che si apra a noi. "Educare a parlare..." ritorno al messaggio e dico grazie a chi me l'ha scritto perchè mi ha ricordato che essere un padre significa anche avere a cuore, in certi momenti, più quello che non si vede e non si sente, di quello che appare ed è evidente. Se mi limito a ciò che vedo e sento, ma non so leggere certi segnali e certi silenzi, non sarò mai in grado di educare a "parlare, a parlarmi". Devo, inolte, essere consapevole che in quei momenti la parola, nell'esprimere certe inquietudini, costa fatica, esce a stento o è impacciata, ma è quella che libera, fa sentire leggeri e permette una vicinanza molto più profonda. Fare in modo che i mie figli mi parlino, dipende davvero molto anche da me.

lunedì 26 marzo 2012

Tempi e modi per insegnare le prime cose importanti

Quando si cerca di trasmettere ai propri figli alcuni valori importanti, bisogna saper  fare i conti con tre possibilità: che non siano ancora del tutto pronti per comprendere fino in fondo quello che si cerca di insegnare, che li prendano talmente sul serio da assumerli come regole assolute senza senso critico nell'applicarle o che, in maniera totalmente naturale, se ne freghino altamente.
Una mia  amica ieri mi ha raccontato un episodio che su questo tema calza proprio a pennello.
Negli ultimi mesi lei e suo marito (soprattutto il marito) si sono messi d'impegno nel cercare di spiegare alla figlia di sette anni il valore e l'importanza del denaro. Con molta buona volontà le hanno spiegato che i soldi sono importanti, non vanno sciupati in cose inutili e superflue, che per guadagnarli il papà e la mamma lavorano con molto impegno e che quindi servono per le cose importanti, ecc. La bimba, molto ricettiva (pare fin troppo), ha quindi cominciato prendere sul serio il tema: ogni volta che la madre arrivava a casa con un acquisto chiedeva con aria inquisitrice quanto avesse speso, nel far la spesa iniziava a  vigilare sulla gestione delle finanze suggerendo spesso di rinunciare a ciò che lei ritenesse non necessario, addirittura ha detto alla madre che preferiva rinucuare a certe abitudini per risparmiare: insomma una specie di governo Monti, determinata a far applicare finanziarie durissime. Lei e suo marito hanno iniziato ad insospettirsi: "stiamo generando un bimba dal braccino corto"? Al padre, comunque, la prospettiva cominciava a piacergli e stava già  calcolando l'effetto risparmio negl'anni grazie a questa predisposizione della figlia, sono cifre importanti. La madre, invece, si poneva degli interrogativi più esistenziali cominciando a sospettare che la figlia avesse preso troppo alla lettera i loro insegnamenti e  si stava preoccupando della piega che un irrigidimento del genere potesse prendere.
Sospetti confermati qualche giorno successivo quando, tornando a casa dopo la piscina con la figlia e la sua migliore amichetta, propone ad entrambe una pizzetta in compagnia. La figlia subito le dice: "Mamma la pizzetta non è necessaria, ma se proprio la vuoi comperare ne devi prendere solo una!". La made rimane interdetta e per riuscire ad acquistare le due pizzette deve insistere non poco.
A questo punto non ci sono dubbi: per la bambina parlare di valore del denaro è stato un po' prematuro.
Riflettendo insieme di questa esperienza abbiamo convenuto sia su questa evidenza, ma anche del fatto che spesso è difficile non solo azzeccare i tempi e i modi giusti per trasmettere ai propri figli certi insegnamenti, ma che è ugualmente complicato prevedere le reazioni o il livello di comprensione che essi posseggono in quel momento. Si corre il rischio di sopravvalutare o sottovalutare.
E alla fine ci si è domandato:"Adesso che si fa?". "E' una femmina -  mi sono permesso di dire -  vedrete che guarisce presto!"

sabato 24 marzo 2012

Porgere l'altra guancia?

Niente drammi, niente moralismi. Nessun eccessivo allarmismo o ansie improprie, ma uno dei miei "dilemmi educativi" di questo periodo è questo: quando uno dei miei figli (o tutte e due come succede ultimamente) torna dall'asilo con graffi o lamentando dispetti più o meno importanti, come mi devo comportare? Mi butto nei corsi di autodifesa? Mi studio il manuale d'assalto dei Marines e rendo i miei bambini capaci non solo di difendersi ma anche di contrattaccare? Mi ergo a  paladino delle buone maniere e istituisco il comitato della non violenza all'asilo? Oppure mi affido alla massima evangelica del "porgi l'altra guancia", ... sperando magari che arrivi in seguito la giusta "punizione divina" a mettere tutto a posto?
Che dilemma! Da una parte mi sembra ingiusto far finta di nulla perchè comunque i bambini soffrono certe situazioni anche se fortunatamente non sanno ancora portare rancore, dall'altra non vorrei enfatizzare episodi che a volte sono anche abbastanza naturali, anche perchè i miei figli non sono  propriamente degli angioletti. Inoltre mi raccontava una mia amica, che sua figlia (5 anni) quando subisce queste cattiverie tende a chiudersi e a nasconderle. Anche Beatrice a volte fa così. Che disagio vivranno?
Rispetto a queste questioni io e mia moglie siamo ancora in fase esplorativa e ci stiamo limitando (per ora) a suggerire ai nostri figli di cambiare, se è il caso, compagni di gioco o semplicemente di dire ai compagni un po' più maneschi di non fare certe cose perchè sono brutte. Non sappiamo se questo per ora sia l'approccio giusto e più appropriato: lo scopriremo dai frutti che porterà. Ciò che, però,  a me stupisce è che nei bambini oggi è evidente questa tendenza all'aggressività. Visto che non esistono genitori (mi rifiuto di pensarlo) che insegnano ad essere cattivi,  mi chiedo da che cosa scaturisca tale tendenza. Magari è l'insieme di nostri comportamenti: la fretta, gli scatti di impazienza, l'intolleranza a certe loro esigenze, la nostra indisponibilità all'ascolto in certi frangenti, a incider negativamente in loro. Forse  la combinazione di tutte queste cose implicitamente tocca la sensibilità dei nostri bambini. Probabilmente il bambino recepisce, senza che noi ce ne accorgiamo,  qualcosa che lo spinge ad essere aggressivo e a, in qualche modo, indirizzare questo atteggiamento verso i propri compagni o amici.
Faccio ancora fatica a saper dare un nome o un significato a certi comportamenti anche dei miei figli, ma credo già un passo importante sia quello di non rimanerne indifferenti.
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